C’è un filo sottile e ininterrotto che lega, oltre il tempo e il rapido mutare delle forme di espressione, le musiche composte attorno al tema dei misteri della Passione e della Morte di Cristo. Concepite per la liturgia, o soltanto ispirate dal pensiero cristiano, tali musiche tendono a una particolare profondità di espressione, a una densa emotività capace di richiamare la gravità e la pregnanza della sofferenza del Dio incarnato. Al tempo in cui Gesualdo da Venosa concepì i suoi Responsoria, le “durezze” (dissonanze), le “ligature” (ritardi), i cromatismi armonici, le asprezze melodiche furono alcuni degli strumenti espressivi ai quali il linguaggio musicale ricorse per descrivere i tormenti della Passione. Estremo capolavoro del principe Carlo Gesualdo da Venosa, i Responsoria rappresentano una testimonianza viva della sua personale spiritualità, sofferta e intrisa di contrizione. Meditati, scritti e dati alle stampe nel castello dove egli trascorse gli ultimi tormentati anni della sua vita (a un centinaio di chilometri da Napoli), essi affermano una sorta di ‘identificazione’ di Gesualdo nelle sofferenze del Cristo della Passione. Ma più che composizioni concepite per la liturgia, esse sembrano possedere una dimensione quasi metafisica e astratta. I Responsoria trasferiscono in ambito sacro procedimenti analoghi a quelli sperimentati da Gesualdo nelle sue ultime raccolte madrigalistiche, ricche di cromatismi e dissonanze, e in ciò partecipano di un clima che non è soltanto spirituale, ma anche formale.
I Responsoria di Gesualdo erano destinati «ad officium Hebdomadae Sanctae», e in particolare al rito delle cosiddette Tenebrae, gli uffici notturni degli ultimi tre giorni della Settimana Santa. Il termine Tenebrae è concretamente e simbolicamente collegato al tema della luce, che accompagna costantemente quello della Passione nel dualismo tenebre-luce, noxlux, morte e resurrezione. Uno dei 14 salmi del triduo della Settimana Santa – va cantato nell’ambito del secondo ufficio notturno del venerdì santo – è il Salmo 53, al quale Salvatore Sciarrino ha dato nuova veste musicale. Sciarrino non si sottrae alla suggestione e al ruolo universale di queste tematiche: «Vi sono motivi del rituale di Passione su cui poggia l’intera nostra cultura. La sapienza oltre i limiti del dolore riguarda ciascuno di noi, dischiusa e avvolta in un turbine antico di immagini, le più forti ed estreme che le vicende umane possano rispecchiare». [Sciarrino conosce nel profondo la polifonia di Gesualdo, per aver trascritto, o meglio «trasfigurato» alcuni suoi madrigali rendendoli composizioni autonome, anche se generate da un modello. Ma il confronto di Sciarrino ha luogo qui con un’altra tradizione musicale, quella del canto gregoriano.] La forma responsoriale diventa qui dialogo simmetrico tra canto gregoriano e canto di nuova concezione: quest’ultimo rappresenta l’eco e la trasfigurazione del cantus planus, ingabbiate nella precisione ritmica e liberata nell’intonazione (ricca di glissandi) e nelle dinamiche (messe di voce dal pianissimo al forte). Anche qui, dunque, si avverte il forte ruolo della tradizione, rigenerata attraverso uno ‘scardinamento’ che intende intaccare la perfezione formale del modello («all’essere compiuti contigua è la freddezza») e creare un meccanismo in cui si conservi l’alternanza binaria responsoriale dei versetti, ma si concepisca un loro raggruppamento secondo un diverso ordine e una diversa logica: «A parte quello conclusivo, i versi vengono ripetuti a gruppi di tre, affinché la circolarità s’intrecci con l’alternanza responsoriale, che è binaria. In tale amplificazione viene ad evidenziarsi la continuità proprio per mezzo dell’intermittenza».
Oltre le tenebre stanno alcune luminose composizioni sacre di Krzysztof Penderecki e Giacinto Scelsi, che attingono alla tradizione con diversi atteggiamenti. Il primo prende spunto da un antico organum conservato nella Stiftsbibliothek di Engelberg, di cui sviluppa alcuni spunti tematici intrecciandoli con l’intonazione di passi del salmo 117. Scelsi percorre una strada ancor più vicina alle arcaiche suggestioni del canto fermo. Chiede agli esecutori che «la sonorità di questa musica richiami la musica de monaci o medievale», né sembra preoccuparsi troppo rigorosamente della durata delle note. Qui il canto si abbandona al libero fluire nella forma responsoriale che alterna solista e coro nell’Antifona sul nome «Jesu». Il testo si riassume in un’unica parola, Jesu, ripetuta ostinatamente: un mistico e ipnotico amplificatore spirituale.