Musiche sinestesiche per vocazione

di Emanuele Arciuli

Emanuele ArciuliUn programma che mette assieme composizioni assai diverse, ma tutte naturalmente disposte a interrogare altri sensi che non siano l’udito, tutte – cioè – sinestetiche per vocazione più che per deliberato intento poetico o, peggio, per partito preso.

Nella prima parte le musiche di due autori italiani, Marcello Panni e Giacinto Scelsi, incastonano altrettante opere cruciali di John Cage, del quale quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita.

La seconda parte, invece, è interamente occupata dalla Sonata n.2 “Concord – Massachusets 1840-60” di Charles Ives, capostipite della musica d’oltreoceano. Marcello Panni, romano, amico di Cage e Feldman, intellettuale raffinato e dotato di una indipendenza di pensiero che lo ha condotto a scelte scomode e innovative sia come compositore che come direttore d’orchestra, è un appassionato d’arte contemporanea. La sua collaborazione con l’artista livornese (ma romano d’adozione) Gianfranco Baruchello (1924) ha prodotto un’opera sperimentale, Farben, dal titolo amabilmente schoenberghiano, che con la musica di Schoenberg, però, intrattiene rapporti vaghissimi e lontani; piuttosto sembra prefigurare certo minimalismo di marca americana. Le immagini di Baruchello (che scorrono veloci come uno slide show accelerato) non hanno una specifica relazione con la musica, ma stabiliscono una sorta di “contrappunto dialettico” (per parafrasare Nono), e anche le durate di musica e video non coincidono esattamente.

L’opera di Panni è costituita da nove sezioni di quindici  battute ciascuna (solo una, misteriosamente, ne conta sedici). Ogni sezione – che si collega alla successiva senza soluzione di continuità – si pone come una variazione della precedente, con modifiche progressive della scrittura che, tuttavia, si basa su un campo armonico unitario costituito da una sequenza di accordi. L’opera – composta nel 1971 e rivista vent’anni dopo – presenta un curioso sottotitolo che val la pena citare per intero: Variazioni cromatiche su/per un film di Gianframco Baruchello – per pianoforte (o altro strumento a tastiera) che potrà anche essere elettrico o preparato, per accompagnare il film o da solo in concerto.

Su 4’33’’ di Cage (composto nel 1952) è stato scritto di tutto, certamente  si tratta di un’opera paradossale non solo per la sua scelta radicale di un silenzio assoluto, ma perchè a questo silenzio – appunto – è stato dedicato un apparato critico che raramente si è rivolto con la medesima attenzione e passione speculativa alle musiche del Novecento. Rispetto alla sinestesia, in qualche modo evocata dall’intero programma, 4’33’’ si pone come il grado zero. Fra l’altro converrà notare che, a dispetto delle prescrizioni di Cage, che in fondo lasciano all’interprete la facoltà di prolungare o contrarre la durata del silenzio, i 273 secondi complessivi (che si ricavano, appunto, contando il tempo dell’opera) non sono casuali, ma equivalgono allo zero assoluto Celsius. In a Landscape (1948) è tra le opere più accessibili e melodiche di Cage, addirittura pervasa da un lirismo che non siamo abituati ad associare al compositore americano. Composta da una serie di strutture matematiche che ne scandiscono la forma (ma che non risultano percepibili all’ascolto) In a Landscape procede isoritmicamente per lunghe sequenze di scale, talvolta di sapore esotico, e mantiene un tono sognante e incantatorio.

Giacinto Scelsi è, fra gli autori italiani della generazione precedente l’avanguardia storica, una figura di assoluto spicco. Escluso dai circuiti musicali più accademici (e dai programmi di studio nostrani) è invece richiestissimo all’estero (Germania, Francia, Stati Uniti) dove è assai più conosciuto e amato dei coevi Petrassi e Dallapiccola. La sua produzione pianistica è vasta, ancorché poco eseguita – se si eccettua un ristretto numero di opere. Ka (termine sanscrito che sta per energia vitale) è un insieme di sette quadri che si susseguono senza sosta, ed è – fra le composizioni pianistiche di Scelsi – una delle più significative, complesse e affascinanti. Composta nel 1954, essa  è entrata nel repertorio di alcuni pianisti per sua ricchezza di accenti, la lussureggiante scrittura pianistica e il tono misterioso e arcano che la pervade.

In un’ipotetica cosmogonia della musica americana, un ruolo centrale spetta alla Concord Sonata, e per un insieme di ragioni. Innanzitutto le dimensioni, quasi mahleriane, inusitate per un brano pianistico, che sembrano assieme rievocare i luoghi sterminati che si aprono allo sguardo in molte regioni d’oltreoceano, e preconizzare la vocazione dell’arte americana ai grandi spazi, mistici e silenti (come accade in certe pagine di Feldman o nelle campiture cromatiche di Rothko). Opera gigantesca, ma che rifugge dal gigantismo, tutto fuorchè velleitaria o retorica, capace persino di spogliare un riferimento beethoveniano per antonomasia (la Quinta) di ogni titanismo per riportarlo ad una dimensione di sorgiva semplicità. Poi il rapporto con la forma, che rinuncia al canonico conflitto dialettico per blocchi contrapposti, e s’immerge in una dimensione che – letterariamente – chiameremmo libero flusso di pensiero, una forma difficile da seguire e che suggerisce con l’oggetto sonoro un rapporto differente, di totale empatia. Infine il linguaggio, specialmente armonico. Sembra che la musica di Ives non rimandi ad alcuna lezione dei grandi maestri, la sua armonia diviene quasi “poltergeist”, materia ignota per origine e direzione, che sconcerta e avvince per la densità magmatica e l’urgenza di comunicare. Composta intorno al 1914, ma sottoposta a numerose revisioni, l’opera si pone come omaggio al Trascendentalismo, una corrente di pensiero sviluppatasi in America nella metà dell’Ottocento. A figure significative del Trascendentalismo è dedicato ciascuno dei quattro movimenti della Sonata.