“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”. Così inizia “Il processo” di Franz Kafka. Si tratta di un incipit che rivela già nello snodarsi di principale e subordinate il senso di tutta la vicenda assurda, che investe nella sua quotidianità il diligente e brillante procuratore Josef K., dietro il quale è fin troppo facile vedere lo stesso Kafka. Josef K. un giorno viene arrestato. Non conosce il capo d’accusa, né lo conoscerà mai. Di fronte all’assurdità di un processo basato su una colpa sconosciuta, il protagonista non fugge, si presenta invece di sua volontà di fronte alla corte, cerca un avvocato, insegue improbabili informatori, seduce e si lascia sedurre da donne che potrebbero aiutarlo. Come dirà nel finale: “l’unica cosa che posso fare è conservare sino alla fine il raziocinio che inquadra tutto con calma”. Il raziocinio, l’arma mitica dell’uomo moderno, viene però spogliata qui di qualsiasi potere reale: essa non serve a spiegare il senso dei fatti, bensì solo a scrutare in modo sempre più incerto i meccanismi di svolgimento dei fatti.
La vicenda di Josef K può essere letta anche come simbolo della perdita di autonomia e di responsabilità del singolo all’interno della società contemporanea: l’individuo è schiacciato negli ingranaggi di una macchina burocratica e di un sistema economicistico che non conosce nel suo insieme e di cui progressivamente ha perso il senso. Alla luce dei drammi del Novecento, il romanzo kafkiano può suonare persino come un presagio dei totalitarismi e delle dittature che annienteranno gli individui, proprio nel momento in cui assicuravano ad essi la massima stabilità organizzativa.
Dall’incubo di una ragione che genera mostri il protagonista non riesce a sottrarsi, benché si appelli con tutte le forze alla sua brillante intelligenza. Anzi, sembra proprio questa intelligenza ad ostacolarlo. E’ la sua intelligenza, infatti, che lo porta a porre sopra ogni cosa il principio di autoconservazione e quindi a negare la com-passione, unica via per uscire dalla solitudine. E’ la fiducia nella sua intelligenza che lo induce a licenziare l’avvocato, a staccarsi progressivamente da tutti, a crearsi attorno terra bruciata. Da questo isolamento lo potrebbe strappare l’incontro con il femminile: Leni, l’infermiera dell’avvocato, rappresenta, con la sua sensualità, un’apertura verso un senso che non viene dalla sfera razionale. Questa irrazionalità, però, appare fino in fondo profondamente ambigua. Così la figura di Leni oscilla dentro l’alone equivoco dell’angelo e del diavolo, della salvezza e della tentazione.
La storia di Josef K. è infine soprattutto una parabola sul senso di colpa e sulla ricerca di espiazione, tanto più intollerabili quanto più essi si sottraggono alla sfera religiosa. I riferimenti al messaggio ebraico e cristiano sono molteplici: dall’imponderabilità del giudizio del tribunale supremo, alla ricerca di penetrare nella Legge. Essi divengono espliciti alla fine della vicenda, quando il condannato incontra nel duomo un sacerdote. E’ proprio questo incontro a fornire la chiave interpretativa del processo di Josef K. Ciò che accade non può più essere giudicato secondo la categoria della verità o della falsità, ma solo attraverso quella della necessità. Il senso di questa necessità rimane mistero. E la condanna più terribile è quella di non saper accettare il mistero.
Poco tempo dopo K. verrà prelevato da casa e giustiziato, come un cane.