Hai un bel da tirare in ballo il post-moderno, di cui oggi si amano celebrare le esequie. Come se l’idea di mescolare lingue, registri, generi diversi fosse un’invenzione dei nostri zii di fine Novecento. Il meticcio, l’ibridazione di nobile e plebeo, classico e barbarico, come gusto e come stile, sono sempre esistiti, da Petronio Arbitro a Rabelais, da Dante Alighieri a Orlando di Lasso, su su fino a Gustav Mahler e Charles Ives. E non sono certo invenzione dei post-moderni, i quali semmai hanno reagito a un progressivo irrigidimento accademico e all’approfondirsi del fossato fra lingua dotta e idioma popolare in un’epoca come l’Ottocento romantico che, mentre esaltava l’idea astratta di popolo, provava sempre più fastidio e disgusto per la “gente”, quella stessa che, al volgere del secolo, la sociologia avrebbe bollato con l’epiteto infamante di “massa”.
Ed ecco allora i compositori più capaci di guardare oltre le mura, più inclini ad ascoltare e innamorarsi delle voci e dei canti provenienti da strade e da campagne, raccogliere amorevolmente (e non è retorica) melodie e ritmi non di rado vecchi di secoli, e farli propri, spesso attirandosi critiche astiose o indifferenze ostentate. Perché il primo dovere di un compositore, secondo una mentalità che Béla Bartók considerava aberrante, è quello di essere originale, e di non svilirsi nel ricopiare musiche altrui o nello sforzarsi di abbellire roba di nessun valore.
Fra costoro ecco venirci incontro Manuel De Falla che nel 1914, a chi lo biasimava per il gergo troppo aflamencado de La vida breve, rispose rincarando la dose con quel “settebello” che sono le intramontabili Siete Canciones Populares Españolas, scolpite, si direbbe, nel marmo andaluso.
O anche il più irrequieto curioso e sensibile dei compositori italiani del secolo scorso: Luciano Berio, cui si deve un capolavoro indiscusso come i Folk Songs. Indiscusso, letteralmente. Perché a fronte di un successo clamoroso per una composizione del 1964, e di una miriade di esecuzioni, gli undici Folk Songs, dove i canti tradizionali di paesi diversi e le invenzioni proprie si mescolano e si confondono, hanno riscosso un generale, assordante silenzio della critica e della musicologia togate. Come fossero cosa di poco conto, in quanto remake, divertissement, libera uscita di un artista che si vorrebbe chiamato a ben altre sfide.
Fra i grandi pionieri della consapevolezza di quale miniera la musica popolare sia per l’arte di ogni tempo, e di quale ossigeno rappresenti per essa, c’è poi, suo malgrado, Stravinsky che nel 1917 scovò una filastrocca russa e la trasformò in questa piccola gemma che è Tilimbom. Certe sue pagine – fra tutte il Sacre du Printemps – sono un inarrivabile intarsio di melodie popolari prese e reinventate. Eppure il grande russo, sornione, negò sempre questi imprestiti. Sono i piccoli artisti, diceva, che prendono in prestito: il grande artista ruba. A tutto questo si aggiunga il fatto che queste musiche, pena il loro istantaneo declassarsi in caricatura, richiedono voci speciali, multiruolo, virtuose di quella che potremmo chiamare transvocalità. Ergo Cristina Zavalloni, maestra sopraffina di quest’arte.